Paper given at the Trento Conference, 1997
published in L. Monteccucco -F. Castellani (eds.) Normatività logica e ragionamento di senso comune, Il Mulino, Bologna 1998 (343-360)



Carlo Penco
penco@unige.it


Contesti e ragionamento: da Frege all'I.A.



1. Il concetto fregeano di senso e il principio del contesto Per Frege una parola ha significato solo nel contesto di un enunciato. Questo principio generale, chiamato "principio del contesto" è stato interpretato in diversi modi, per l'ambiguità della parola "significato". Esso è comunque strettamente connesso al concetto fregeano di "senso".1 Il concetto fregeano di senso è a sua volta direttamente collegato al problema dell'inferenza. Infatti, sostiene Frege, due enunciati hanno lo stesso senso se da essi si possono derivare le stesse conseguenze (Ideografia ß3). Facciamo alcune chiarificazioni preliminari che danno il quadro concettuale in cui ci muoviamo.

1) il senso non è il tono. Cosa è il senso di un enunciato? Non è l'immagine che si può connettere all'enunciato o le emozioni che questo ci suscita, ma il suo potenziale inferenziale: comprendiamo il senso di un enunciato se siamo in grado di cogliere quali possibili conseguenza derivano da esso (unitamente ad altri enunciati, siano essi assiomi o altre assunzioni). Per questo una analisi del senso è prima di tutto rilevante a una discussione sul ragionamento; ragionare è fare inferenze, e capire il senso di un enunciato è capire le possibili inferenze che posso trarre da esso.
2) il senso non è il riferimento (o la Bedeutung). Per Frege il riferimento di un termine singolare è l'oggetto cui esso si riferisce e il senso è il modo in cui tale oggetto ci viene presentato; il riferimento di un enunciato è il suo valore di verità e il suo senso è il pensiero da esso espresso, ciò che i parlanti afferrano quando comprendono un enunciato, anche se non sanno se l'enunciato è vero o falso. Wittgenstein dirà che il senso di un enunciato sono le sue condizioni di verità.
3) il senso non è la forza; il senso o pensiero è il contenuto concettuale comune a diversi atti linguistici; posso asserire che Silvio paga le tasse, domandare se Silvio paga le tasse o comandare che Silvio paghi le tasse; ma in ogni caso i contenuto concettuale comune all'asserzione, domanda e comando è lo stesso, il pagare le tasse da parte di Silvio. Posso asserire che è vero, domandare se è vero o comandare che si avveri questo pensiero; il pensiero di per se' non cambia.

Forti di queste poche definizioni vediamo il principio del contesto all'opera in due temi, il discorso indiretto e gli indicali, trattati da Frege rispettivamente nei saggi "Sul senso e sul riferimento" del 1892 e "Il pensiero" del 1918.

2. Principio del contesto e discorso indiretto Il trattamento fregeano del discorso indiretto è una delle applicazioni pi˜ famose del principio del contesto di Frege (anche se non è spesso presentato in questa luce) Il principio del contesto qui aiuta Frege a salvare la composizionalità, essenziale per ogni formalismo logico. Per il principio di composizionalità il riferimento di un enunciato è composto a partire dal riferimento delle parti. Per verificare la validità del principio di composizionalità Frege usa un test di sostitutività: se in un enunciato si sostituisce una espressione con un'altra coreferenziale, il riferimento dell'enunciato non cambierà. L'esempio di Frege è:

(1) La stella del mattino è un pianeta
(2) la stella del mattino = la stella della sera
------------------------------------------------------
(3) La stella della sera è un pianeta

(3) è l'enunciato ottenuto sostituendo in (1) una espressione con un'altra coreferenziale; (2) esprime appunto la coreferenzialità. Se (1) è vera, allora anche (3) è vera (mantiene lo stesso riferimento). Uno dei problemi centrali del saggio di Frege è che questo test apparentemente fallisce nel discorso indiretto; infatti la seguente inferenza non vale:

(1*) Sara sa che la stella del mattino è un pianeta
(2*) la stella del mattino = la stella della sera
------------------------------------------------------------------------------
(3*) Sara sa che la stella della sera è un pianeta

Infatti Sara potrebbe non sapere che la stella della sera è uguale alla stella del mattino; in tal modo (3*) può essere falsa anche se (1*) è vera. Non è detto dunque che il riferimento di (3*) sia lo stesso di quello di (1*), nonostante il fatto che abbiamo sostituito termini coreferenziali. Abbiamo qui un controesempio al principio di composizionalità; sembra che il riferimento del tutto non dipenda dal riferimento delle parti, perche' il test di sostitutività non funziona. La risposta di Frege per salvare il principio di composizionalità è usare il principio del contesto: il riferimento di un enunciato dipende dal contesto e varia dunque al variare del contesto.
Nel contesto diretto il riferimento di un enunciato è il suo valore di verità; nel contesto indiretto (nelle frasi dipendenti rette da "x sa che...", "x crede che..." ) il riferimento di un enunciato è il pensiero espresso dall'enunciato (quello che Frege definisce il "senso" dell'enunciato o il "pensiero" espresso, e che in semantica modellistica è normalmente chiamato, a partire da Carnap, "proposizione"). L'intuitività della soluzione di Frege è data dal semplice fatto che il riferimento è ciò a cui ci riferiamo; e quando diciamo "s crede che p" con "p" noi ci riferiamo a ciò che il parlante crede, alla sua credenza (al suo pensiero o proposizione espressa dall'enunciato). Nel discorso indiretto (es. in un resoconto di credenza) ci riferiamo al contenuto di una credenza, non alla sua verità: perciò non ci impegniamo sulla verità dei pensieri espressi. Non è rilevante la verità o falsità di ciò che Sara crede, ma il fatto che lo creda. Nel nostro caso dunque il riferimento dell'enunciato dipendente ("la stella della sera è un pianeta") non è un valore di verità, ma una proposizione, un pensiero.
Il riferimento di un enunciato dipende dunque dal contesto enunciativo in cui compare: nei contesti indiretti (che riferiscono conoscenze e credenze) il riferimento è il contenuto della credenza, il pensiero creduto o conosciuto; negli enunciati del discorso normale, diretto, il riferimento è il valore di verità. Frege è interessato soprattutto a dare una formalizzazione di questo tipo di enunciati; infatti il suo scopo primario è la formalizzazione del ragionamento matematico che è un ragionamento "a contesto zero". Ma, non appena si esce dal discorso matematico, anche in casi di enunciati del discorso diretto, Frege trova altri problemi che riguardano la definizione del senso e del riferimento: è il caso delle espressioni indicali che passiamo ora a discutere.

3. Indicali e contesto extralinguistico - Frege ha assunto a modello di ciò che definisce "pensiero" (o senso di un enunciato) le leggi della matematica, valide per tutti, ovunque e atemporalmente; ma la maggior parte degli enunciati del linguaggio naturale dipendono dal parlante, dal luogo e dal tempo. Frasi come "io sto scrivendo qui ora" non esprimono dunque alcun pensiero? Per Frege è proprio così; o meglio frasi del genere non sono "l'espressione completa di un pensiero". Per avere un pensiero, cioè qualcosa di valido atemporalmente, occorre che le espressioni di tempo, luogo e parlante vengano in qualche modo esplicitate e de-contestualizzate, per dare luogo a pensieri assai diversi come "Gottlob Frege scrive a Jena nel 1918" o "Carlo Penco scrive a Genova nel 1997". Frege si situa così all'inizio di una tradizione di studi che tende a inserire gli elementi pragmatici (il parlante, il tempo il luogo...) nell'ambito della semantica: ogni espressione di carattere pragmatico-contestuale verrà tradotta in una espressione corrispondente la cui struttura semantica risulti non ambigua e i tratti pragmatici-contestuali vengono eliminati.
Per poter fare questo tipo di traduzione occorre ovviamente conoscere il senso delle parole dipendenti dal contesto, come il senso della parola "io" che viene definito da Frege "colui che vi sta parlando in questo momento". Ma anche questa definizione fa un uso di una espressione indicale: "questo", in "questo momento" , andrebbe a sua volta definito. Si può arrivare per questa strada alla completa eliminazione degli aspetti indicali dell'uso linguaggio? Frege stesso non si pronuncia chiaramente a proposito e lascia spazio a dubbi, richiamando l'importanza delle circostanze concomitanti come gesti, sguardi, altre informazioni sottintese.

4. Sviluppi moderati e radicali Le intuizioni di Frege sono state variamente riprese da logici e filosofi successivi; mi fermerò su due sviluppi del principio del contesto, uno che chiamerò "moderato" e uno che chiamerò "radicale". Queste due direzioni di ricerca sono per certi aspetti collegate a una maggiore accentuazione dell'uno o dell'altro dei due problemi di Frege; infatti, come è facile notare, le due preoccupazioni di Frege trattate nei due paragrafi precedenti si riferiscono a due problemi apparentemente diversi, a due tipi diversi di dipendenza. La differenza fondamentale dei due casi è la seguente:

- nel primo caso il significato di un enunciato (indiretto) dipende dal contesto di altri enunciati. Il contesto qui rappresenta un punto di vista su un pensiero: il punto di vista di chi fa il report di credenza e sostiene la verità di un enunciato complesso del tipo "s crede che p" , senza impegnarsi sulla verità di p. Si lascia sempre qualcosa di relativizzato al contesto sospendendo il giudizio sulla verità: non asserisco che è vero che Venere è un pianeta; dico solo che è vero che Sara lo crede.
- nel secondo caso il significato di un enunciato dipende dal contesto di emissione, da fattori extralinguistici in cui l'enunciato è emesso. Il contesto qui rappresenta uno stato del mondo che determina la verità o falsità di un pensiero. L'esplicitazione degli indicali, la de-contestualizzazione, è un modo per fissare una volta per tutte il senso e la verità di un enunciato.

Lo sviluppo "moderato" segue questa seconda preoccupazione; è caratterizzato dal tentativo di decontestualizzare le emissioni linguistiche, eternizzandole (direbbe Frege o dopo di lui Quine) ancorandole a precise coordinate (tempo, luogo, parlante). Gli aspetti "pragmatici" del contesto extra-linguistico vengono portati "dentro" la semantica come parametri associati a ogni enunciato. Questi tentativi non riescono però a togliere un dubbio di fondo: che la richiesta di de-contestualizzare, di esplicitare tutti gli elementi lasciati impliciti nel contesto di emissione, sia una richiesta cui alla fine non è possibile rispondere completamente. Credo che questo dubbio di fondo sia un retroterra di molti tentativi diversi di affrontare il problema del contesto, tentativi che accomuno sotto l'etichetta di "radicali" .
Lo sviluppo "radicale" delle idee fregeane è caratterizzato invece dal tentativo di generalizzare la dipendenza del significato dal contesto linguistico o cognitivo in generale2. Il contesto diviene l'elemento concettuale fondamentale per rappresentare il funzionamento del linguaggio e della conoscenza. Ogni enunciato è relativo a un contesto e un contesto viene concepito come uno spazio concettuale in cui si danno enunciati, un punto di vista sul mondo; non esiste una descrizione senza un punto di vista; e, per definizione, non esiste il punto di vista assoluto. Detto in uno slogan la prospettiva è, al contrario della precedente, quella subordinare la semantica alla pragmatica (e non è forse un caso che Frege subordinasse il contenuto concettuale al segno di forza assertoria).

5. Principio del contesto: sviluppi moderati Perche', nello sviluppo della logica, la soluzione di Frege al discorso indiretto viene spesso scartata? Perche', sostiene Carnap, produce una inutile infinità di enti: infatti se il riferimento indiretto è il senso ordinario, cosa avverrà se iteriamo le credenze? Come interpretare il valore semantico di "p" in un enunciato come "Sara crede che Giorgio crede che Pippo crede che p" ? Dovremo forse avere tanti infiniti valori semantici per ogni enunciato? Questo appare del tutto controintuitivo a Carnap, che preferisce un quadro concettuale in cui il valore semantico degli enunciati non vari al variare del contesto: ogni enunciato ha una estensione e una intensione. L'intensione è una funzione da mondi possibili a estensioni, cioè una funzione che dà per ogni mondo possibile la estensione corrispondente. Estensione e intensione non variano al variare del contesto come accadeva per senso e riferimento in Frege; ma cambia il test di sostitutività: nei contesti "intensionali" (come i contesti indiretti) non può valere la sostitutività delle estensioni, bensì solo quella delle intensioni.
Accettando la soluzione di Carnap al problema del discorso indiretto (invece di altre soluzioni pi˜ fregeane come quelle di Church e Dummett), l'attenzione dei logici si è dedicata a integrare il secondo problema di Frege nel nuovo paradigma, trattando cioè anche me espressioni indicali, di cui Carnap si era disinteressato. David Lewis [1970] considera la "intensione" di un indicale come una funzione da indici a estensioni. Come viene definito qui un "indice"? Viene definito come un insieme in cui al mondo possibile si affiancano altre coordinate come tempo, luogo e parlante. Si riesce a trattare così l'indicale rendendolo in qualche modo "innocuo", traducendolo in una serie di coordinate che lo definiscono. Questa prima soluzione sembra rispettare le esigenze poste da Frege ed essere del tutto in linea con alcune delle sue indicazioni.
Un problema rende dubbia questa strada: enunciati come "io sono qui ora" sono ovviamente contingenti (io potrei essere altrove, o potrei essere qui, ma in un altro momento. Non sono dunque veri in tutti i mondi possibili. D'altra parte sono veri in tutti i contesti di emissione: un parlante che pronunci quelle parole dice sempre il vero. Come risolvere questo contrasto? Kaplan [1977] suggerisce di distinguere due componenti del significato delle espressioni indicali, da una parte il contenuto o intensione carnapiana, dall'altra il carattere: il carattere è il modo in cui viene determinata l'intensione (il contenuto) che a sua volta determina l'estensione in ogni mondo possibile. Kaplan passa da una logica a due componenti (estensione, intensione) a una logica a tre componenti: estensione, intensione, carattere [Kaplan 1977a 506-507].
La innovazione pi˜ rilevante di Kaplan è la separazione netta tra il ruolo del contesto da quello del mondo possibile. Il significato di un indicale non si può ridurre a una funzione da indici a estensioni. Dobbiamo distinguere accuratamente i due ruoli del mondo possibile e del contesto, cioè attribuire agli indicali due tipi di significato,
- uno (il contenuto) che è quello della tradizione logica carnapiana, cioè la intensione di "io" come quella funzione costante che per ogni mondo possibile dà lo stesso individuo.
- l'altro (il carattere) che presenta la regola che assegna la corretta funzione costanteÝper ogni contesto .
Il punto è che in certi contesti espressioni palesemente diverse possono avere la stessa intensione: ad es. "io", "Carlo Penco", "costui"; qual'è la differenza? Che a una stessa intensione sono associate diverse procedure cognitive (che in questo caso coincidono con le regole linguistiche d'uso). La procedura che dà lo stesso individuo negli stessi mondi possibili ha una rilevanza cognitiva. L'intensione ha una funzione, possiamo dire, ontologica: è una rappresentazione di come le cose sono di per se'. Il carattere ha una funzione linguistico-cognitiva; è una rappresentazione del modo in cui arriviamo a individuare le cose. Come richiama lo stesso Kaplan, è l'aspetto che pi˜ si avvicina al senso come valore cognitivo di cui parlava Frege, e che si mostra rilevante anche come potenziale inferenziale, come tale cioè da poter essere usato come base di un certi tipi di inferenze che non sono realizzabili a partire dalla conoscenza della sola intensione.
Una spiegazione intuitiva di questo viene data da Perry 1979: ammettiamo che io sia al supermercato con un sacchetto bucato, da cui esce lo zucchero. Vedo lo zucchero per terra, non mi accorgo che viene dal mio sacchetto, e penso "costui ha un sacchetto bucato" . Se il significato degli indicali si riducesse alla sola intensione, non ci sarebbe alcuna differenza tra le due credenze "io ho un sacchetto bucato" e "costui ha un sacchetto bucato" . In entrambi i casi, i due indicali ( "io" e "costui") esprimono la stessa intensione, cioè la stessa funzione costante da mondi possibili a individui: si riferiscono entrambi allo stesso individuo in ogni modo possibile; gli enunciati di cui sopra sono dunque veri negli stessi mondi possibili. In entrambi i casi le mie credenze hanno quindi lo stesso contenuto (la stessa intensione). Ma vi è una differenza cognitiva rilevante: le inferenze che traggo cambiano a seconda se so o non so che sono io quello che ha il sacchetto bucato. Se so che sono io, faccio una inferenza pratica: "se voglio che non si sparga zucchero, devo capovolgere il mio sacchetto"; se non lo so faccio una diversa inferenza pratica: "se voglio che non si sparga zucchero, devo cercare e individuare quello stupido che ha un sacchetto bucato" (con la conseguenza pratica di spargere zucchero dappertutto).
Con questi sviluppi del trattamento semantico degli indicali il linguaggio viene diviso in due tipi di espressioni, quelle indipendenti dal contesto ed quelle dipendenti dal contesto che devono venire ricondotte a valori indipendenti esplicitando i fattori extralinguistici nel linguaggio. Ma almeno due probemi costituiscono una sfida per tale prospettiva: (i) molte pi˜ espressioni del previsto si mostrano dipendenti dal contesto extralinguistico; ed è difficile capire dove si situa la linea di separazione tra i due tipi di espressione; (ii) non è possible a priori definire il grado di precisione rilevante per interpretare un frase con espressioni come "qui" e "ora". "Qui" dove? In Europa? In Italia? a Genova? a casa mia? nel mio studio? sulla mia sedia? La soluzione dipende, tra l'altro, dagli scopi della domanda cui si risponde, dal contesto linguistico-cognitivo in cui il discorso è inserito.

7. Principio del contesto: sviluppi radicali C'è una stretta relazione tra contesto extra linguistico e contesto linguistico, che si nota in particolare nel passaggio dal discorso diretto al discorso indiretto: ad esempio un indicale o un dimostrativo nel discorso diretto ("quello è un orso") vengono tradotti con una anafora nel discorso indiretto ("vedendo un coniglio egli ha detto che esso era un orso"); ove prima apparentemente è il contesto extralinguistico a determinare i riferimento qui è il contesto linguistico a dare i criteri necessari (ma non sufficienti) all'individuazione del riferimento.3 Abbiamo accennato al termine della discussione precedente alcuni dubbi sulla praticabilità di una distinzione tra espressioni dipendenti e indipendenti dal contesto. Oltre a mettere in dubbio tale distinzione le riflessioni del secondo Wittgenstein sembrano anche mettere in dubbio la praticabilità della distinzione tra contesto linguistico e contesto extraliguistico. Non c'è una frattura tra le cose che si dicono e le cose che accadono: quando diciamo qualcosa di vero parliamo di qualcosa che accade4. Questo aspetto del Tractatus è in qualche modo sviluppato e radicalizzato dal secondo Wittgenstein.
Fin dal Tractatus Wittgenstein ha sempre apprezzato e citato il principio fregeano del contesto. Troviamo una esplicito richiamo a tale principio anche agli inizi delle Ricerche Filosofiche. E' un po' come se tale principio divenisse la linea guida della sua analisi del linguaggio, con una serie di allargamenti successivi. Poco dopo aver citato il principio fregeano nelle Ricerche Wittgenstein passa a discutere di "contesto d'uso": comprendo una parola solo se so come viene usata in un contesto; giunge infine, sulla base di questa generalizzazione, a enunciazioni del tipo: "un segno da solo è morto; solo con l'uso esso vive".
Al contrario di Carnap che vuole che tutte le espressioni abbiano la stessa intensione in ogni contesto, Wittgenstein estremizza la visione di Frege al punto da relativizzare il significato di ogni espressione a un contesto di uso. La sua generalizzazione del principio fregeano può essere così riassunta: è vero che, come diceva Frege, un enunciato ha significato nel contesto di un enunciato; ma un enunciato ha significato solo all'interno di un linguaggio. Un enunciato è infatti la mossa elementare di un gioco linguistico; per capire una parola in un enunciato, occorre capire le regole che governano il gioco linguistico in cui l'enunciato è inserito.
Il concetto di gioco linguistico è abbastanza vago; Wittgenstein lo usa per indicare sia uno strumento di analisi del linguaggio, sia il dato da cui occorre partire (strana questa ambiguità in un autore che poneva come suo scopo primario quello di distinguere misura e cosa misurata!). "Il" linguaggio non esiste; esistono contesti in cui linguaggio, azioni e scopi si mescolano, e ciascun contesto ha le sue regole. Per capire il funzionamento della nostra attività linguistica Wittgenstein suggerisce quindi una strategia di ricerca: abbandonare le grandi sintesi classificatorie e isolare alcuni giochi linguistici per studiarli con attenzione. In questo caso si possono anche inventare giochi linguistici come linguaggi primitivi completi, che ci aiutano a dare luce sul funzionamento del linguaggio, cosa che sarebbe impossibile se volessimo considerare il linguaggio in tutte le sue infinite sfumature e complessità.

8. Wittgenstein e l'I.A.: dai minimondi ai contesti. Quando lo spirito del tempo è maturo certe idee e visioni del linguaggio convergono. E quanto Wittgenstein andava predicando negli anni '40 in forma esoterica e quasi oracolare diventava moneta corrente negli anni '70, con alcuni sviluppi della Intelligenza Artificiale e di settori della psicologia. Si è parlato abbondantemente nella letteratura filosofica e scientifica dei legami delle idee di Wittgenstein con i concetti di prototipo (E.Rosh) e di frame (M.Minsky); qui accennerò ad alcune analogie con la strategia dei minimondi5. Di fronte al compito di costruire sistemi di comprensione automatica del linguaggio naturale, negli anni '70 la strategia individuata da Wittgenstein sembrava una strada obbligata, anche se non si facevano allora riferimenti espliciti alle sue idee. Wittgenstein [1953] aveva proposto di costruire giochi linguistici come linguaggi primitivi completi, per dar luce sul funzionamento del linguaggio con una sorta di esperimento mentale. Winograd [1972, 1973] realizzava che per costruire un programma di comprensione del linguaggio occorreva restringere il mondo a un contesto ben delimitato, con un esperimento computazionale: sono i minimondi o mondi giocattolo (in cui l'uso linguistico veniva concepito come un modo di attivare procedure nell'ascoltatore e il significato delle parole veniva identificato con le procedure a esse associate). I minimondi sembrano così essere una specie di realizzazione dei giochi linguistici di Wittgenstein [Penco 1992]. Vediamo alcune somiglianze e differenze tra i due progetti.
Nella strategia di Wittgenstein, come abbiamo rilevato sopra, i giochi linguistici sono intesi (i) come strumenti di analisi linguistica (ii) come l'oggetto di tale analisi, il dato su cui operare. Già questa duplicità mostra una differenza tra la prospettiva di Wittgenstein e quella dei minimondi degli anni å70:

(i) nel primo caso le esigenze sono simili a quelle di Winograd e degli altri autori che si occupano di minimondi: mondo e linguaggio sono sempre inestricabilmente uniti. Per capire il funzionamento del nostro linguaggio occorre studiarlo in situazioni ristrette, facendo una specie di esperimento ideale (come in fisica) dove non si trovano tutte insieme le complessità dei vari aspetti del linguaggio. Restringendo il mondo si potrà capire meglio il funzionamento del linguaggio all'opera in un ristretto contesto e studiare con maggiore cura aspetti particolari del suo funzionamento;
(ii) nel secondo caso, aspetto assente nella prospettiva dei minimondi, Wittgenstein considera il linguaggio stesso come un insieme interconnesso di giochi linguistici. Il linguaggio non è solo un elenco di termini o un insieme di regole di formazioni di frasi, ma è strutturato come un insieme di diversi giochi linguistici, in cui linguaggio e azione sono intrinsecamente connessi. La conseguenza di questa visione è intuitiva: per dare una rappresentazione del funzionamento del linguaggio occorre sia una rappresentazione delle diverse modalità di funzionamento delle espressioni linguistiche in diversi contesti ristretti sia una rappresentazione delle regole che governano l'insieme dei giochi, che permettono di passare da uno all'altro

Qui si inserisce il problema di come rappresentare la comprensione e il ragionamento. Comprendere il linguaggio è un tipo di attività che consiste nell'usare appropriatamente le parole a seconda dei contesti; dare una rappresentazione della comprensione e del ragionamento è dare una rappresentazione di un tipo di attività che ha la sua radice in diversi usi linguistici. Se da una parte una descrizione completa del linguaggio è impossibile in linea di principio, d'altra parte una analisi di singoli casi (miniondi) rischia di privare l'analisi del linguaggio di una qualche generalità. Se si considera il linguaggio come un intreccio di giochi linguistici occorre studiare i rapporti tra tali giochi, le regole che permettono di passare da uno all'altro, individuando ordini parziali che rappresentano le strategie con cui un individuo si orienta nel comprendere certi problemi e nel ragionare su di essi.
L'idea che mancava nell'esperimento di Winograd e che traspare come esigenza nelle analisi di Wittgenstein è divenuta un punto di forza delle ricerche degli anni å90: molti autori propongono delle ricostruzioni del funzionamento del linguaggio e della conoscenza come un insieme di minimondi o contesti interconnessi (e sempre nuovi se ne possono inventare). Una rappresentazione del funzionamento del linguaggio e delle strategie di conoscenza può essere organizzata in una rete di contesti. Tra le tante proposte in questa direzione molte si richiamano alle intuizioni originarie di McCarthy. L'idea base di McCarthy è che nella rappresentazione del ragionamento occorre inserire lo stesso contesto come un nuovo tipo di oggetto formale. Ma sulla definizione di che tipo di oggetto formale sia il contesto non è facile trovare un accordo; di certo in questa tradizione il contesto è qualcosa di pi˜ "ricco" del contesto alla Kaplan (definito solo da una serie di coordinate come: parlante, tempo, luogo); piuttosto si assume in generale che i contesti siano teorie parziali del mondo che codificano un insieme di conoscenza necessaria per affrontare un dato scopo.
Come si potrebbe definire un contesto, seguendo le idee wittgensteiniane di "gioco linguistico" ? Un gioco linguistico è costituito da un linguaggio completo (per quanto primitivo), dalle sue regole e dagli scopi e le azioni che vengono compiute per perseguire quegli scopi. Il gioco linguistico è qualcosa di pi˜ che un vocabolario e un insieme di regole, ma è almeno questo. Tra le varie definizioni di "contesto" che vengono offerte nell'ambito dell'I.A e del contextual reasoning quella di Giunchiglia propone il contesto come una teoria, cioè un linguaggio pi˜ un insieme di regole. Il punto di partenza permette di affrontare modularmente i problemi delle inferenze all'interno dei contesti (dipendono dal tipo di linguaggio e dal tipo di regole) e delle inferenze tra contesti (individuando regole che possono essere comuni a diversi contesti e permettere di usare inferenze valide in un contesto ad un altro contesto).
I sistemi multi contesti sviluppati da Giunchiglia e collaboratori assommano diverse caratteristiche che i rendono particolarmente atti a esprimere la direzione che Wittgenstein ha dato alle idee fregeane di senso e di dipendenza dal contesto:

- l'idea di località che trova espressione formale nella formula del "contesto di lavoro" ; di fronte a un problema da risolvere, si costruisce un contesto specifico (contesto di lavoro) importando il minimo indispensabile di informazione e teoria da diversi contesti, secondo Giunchiglia [1993] per cui "quando ragioniamo ... non consideriamo mai tutto quello che sappiamo, ma solo una sua piccola sottoparte". Il contesto di lavoro ovviamene include la definizione degli scopi e delle azioni rilevanti per raggiungere tali scopi, rappresentando così apparentemente un explicatum formale dell'idea di gioco linguistico.
- la autonomia e la plasticità dei contesti: ogni contesto ha un suo linguaggio e le sue regole; è caratterizzato dai suoi scopi e dalle azioni che vengono compiute per realizzarli. Ma un contesto di lavoro (inteso sempre come teoria) può cambiare in aggiunta di nuova informazione. La trattazione formale permette però la compatibilità dei ragionamenti effettuati in diversi contesti.

Questi pochi cenni ci lasciano per ora solo una impressione che con questi formalismi si riesca a darre corpo ad alcune delle intuizioni di Wittgenstein sul funzionamento del linguaggio e sulla relativa autonomia dei giochi linguistici. Restano punti di contrasto e problemi aperti; faccio due esempi:
Su questi e altri aspetti molto lavoro di chiarificazione è ancora da fare. Lo scopo degli ingegneri è produrre macchine e software. Lo scopo del filosofo è lavorare alla migliore comprensione di quello che si sta facendo. In questo umanisti e ingegneri hanno da scambiarsi idee e progetti per capire come dare una migliore rappresentazione del funzionamento del linguaggio e del ragionamento. I loro contesti di lavoro saranno sempre diversi (perche' diversi sono gli scopi) ma potranno trovare sempre, volendo, un ampio spazio cognitivo comune.

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    NOTE

    Parti di questo lavoro sono state discusse alle Università di Trento, Trieste, Vercelli, Venezia. Ringrazio gli intervenuti e in particolare Margherita Benzi, Diego Marconi e Marina Sbisà. Il lavoro si colloca nella ricerca CNR 182CT96.05200.08/115.19798 e nella ricerca MURST 9711318716_001.

    1 La prima formulazione del principio del contesto viene fatta da Frege nella Ideografia ß9, dove Frege tratta una espressione quantificata come una espressione che "riceve un senso solo attraverso il contesto dell'enunciato" . Nei Fondamenti dell'Aritmetica ß 60 Frege ricorda che "è sufficiente che l'enunciato nella sua totalità abbia un senso; da esso si ricava poi il contenuto delle singole parti" Per una chiarificazione pi˜ "scolastica" del principio del contesto rimando a Penco [1994] ai ßß 13, 15 e 42.
    2 La contrapposizione tra "contesto pragmatico" (Kaplan) e "contesto cognitivo" (McCarthy), molto affine alla distinzione tra sviluppi moderati e sviluppi radicali del principio del contesto che presento qui, è stata ampiamente discussa in Bouquet [1997]. Non so chi ha influenzato chi, ma lui comunque ha il merito di aver individuato la contrapposizione come rilevante sia filosoficamente sia per diversi trattamenti formali.
    3 Riprendo l'esempio da Sainsubry [1997], che insiste sul fatto che in un resoconto contenente indicali non si può separare il resoconto di ciò che viene detto dal resoconto del contesto in cui è detto (tesi della non separabilità). Dando il resoconto del contesto, l'indicale originale si trasforma in un termine anaforico.
    4 Frege [1918] la poneva così "un fatto è un pensiero vero". Pi˜ recentemente McDowell [1994] la pone nel modo seguente "there is no ontological gap between the sort of thing... one can think and the sort of thing that can be the case." (p.27). Che questo non corrisponda a una posizione idealista è ampiamente argomentato da McDowell; ma per una discussione pi˜ recente vedi Hornsby 1997.
    5 Vedi anche i miei cenni in [Penco 1997].



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